"Sono padrone del mio destino, ma solo il destino conosce la fine del mio cammino"
Andrea Dovizioso, in memoria di Marco Simoncelli
Stavo
morendo sotto il sole mugellano di maggio, quello che in Toscana può
far male anche se l’estate vera non è ancora arrivata. La puzza
dei gas di scarico delle migliaia di macchine incolonnate stonava i
polmoni, in aperto contrasto con l’azzurro turchese del cielo della
spianata di Scarperia, al bivio di Bosco ai Frati.
Me
ne stavo lì, col casco in testa, la paletta nel centauro e il
casco con la calata aperta, a bollire, in uno scampolo di asfalto
libero. Come al solito, l’unica gara di MotoGP che mi perdevo
allora era proprio quella di casa, al Mugello: avevano detto che
Rossi era arrivato terzo e che Jorge Lorenzo aveva beffato anche
Iannone. Probabilmente stavano facendo la premiazione, ma il deflusso
era già cominciato, perché chi va a vedere il motomondiale a
Scarperia sa bene che per uscire dal Mugello servono ore.
Per
me, già in sella alla moto della Polizia Stradale dalle sei del
mattino, la giornata sarebbe stata ancora lunga e da un momento
all’altro, lo sapevo, me lo sentivo, avrei dovuto cominciare a
correre su e giù per quell’immenso groviglio di auto e di umani,
per scortare qualche ambulanza, qualche personalità, per recuperare
qualche ubriaco o per cercare di distribuire, sulla rete di stradine,
almeno un po’ di quella gente delusa dall’inno spagnolo che aveva
fatto garrire d’orgoglio la Rojigualda iberica sul podio della
classe regina.
Ecco.
Pensavo a quanto ero stato scemo a mettermi in lista ed ecco che da
una Fiesta Grigia incolonnata, vidi sbucare una mano.
Che
fa il poliziotto quando qualcuno lo chiama? Ci va e spera di essergli
utile, pronto a sentirsi dire che il traffico è colpa sua, che la
gente guida come gli pare e che è anche colpa sua, che il Mugello
non è fatto per assorbire tutta quella massa e lui dovrebbe fare
qualcosa, oppure che piove e il governo è ladro.
Invece
da sotto il cappellino con la tesa c’era Nicky, caduto al terzo
giro disarcionato dalla sua Honda Aspar, che aveva già fratto i
bagagli e che ora, con quella fiestina a noleggio, voleva solo
arrivare alla Malpensa e tornarsene a casa.
Il
suo americano gentile, perfetto, sembrava pronunciato per essere
compreso dall’italiano medio.
Non
mi sono mai fatto un selfie, coi personaggi famosi. Ho perso un po’
di quella spinta social che all’inizio mi aveva fatto toccare quota
quattromila amici su Facebook, prima di cancellarmi e tornare
all’anonimato di questo blogguccio.
Oggi,
lo confesso, mi pento un po’ di aver rispettato la regola
deontologica dello sbirro perfetto, lasciando che quella
chiacchierata tra me e il campione, che in comune con il sottoscritto
aveva solo la benzina in circolo nelle vene e l’amore viscerale per
l’equilibrio delle due ruote, restasse una conversazione tra due
persone normali.
La
chiamo dignità e avrei rovinato tutto, chiedendogli una foto
insieme.
Certo,
gli feci capire che sapevo chi fosse. Lo chiamai per nome e gli
spiegai che un modo per arrivare a Roncobilaccio, dalla frazione di
San Giusto a Fortuna, c’era. Un po’ complicato, ma poteva
farcela.
Saltai
in sella, dissi a Gabriele che sarei tornato subito e mi feci seguire
da Nicky per la stradina di Bosco ai Frati, fino a Galliano: da lì,
doveva solo andare dritto, andare a destra al primo incrocio e a
sinistra al secondo: Roncobilaccio e poi via, verso Milano.
Mi
strinse la mano, o almeno così mi sembra di ricordare, e quando
dissi a Gabriele che avevo parlato a Nicky Hayden, lui scrollò le
spalle e sopra il suo testone buono si formò un fumetto con un
gigantesco punto interrogativo dentro.
Niente:
è rimasto tutto tra me e Nicky.
Come
quel pomeriggio del 31 maggio 2015, saluto Kentucky Kid con la stessa
frase.
Buon
viaggio campione.
....avrei voluto essere con te in quel momento!
RispondiEliminaCiao Niky ....ci manchi già!